Il tempo di un caffè
Ancora una volta è durante il periodo especiál, in un momento non ben precisato fra il 1992 e 1994, che comincia questa storia di scarsità e distrazione. In quel periodo, trovare dell’olio da utilizzare in cucina era una missione complicata, così come trovare qualunque altra cosa ma al tempo stesso stava diventando una questione molto seria di salute pubblica, poiché in quegli anni si diffuse fra la popolazione dell’isola la polineurite, una malattia provocata da un’alimentazione scarsa e poco varia che portava a gravi carenze vitaminiche. Ogni alimento, in particolare uno salutare come l’olio, era quindi importante per cercare di contrastare il rischio di malattie. Pertanto, quando Mami Sofía regalò a tía Ana Paula, sua nuora, mezzo litro d’olio che era riuscita a procurarsi1 in qualche modo, fu per lei un grande dono e decise che l’avrebbe custodito ed utilizzato con cura: mia zia mise quindi la preziosa bottiglietta con il mezzo litro d’olio in cucina, nella sua dispensa, vicino al caffè, alle tazzine e a delle bottiglie d’acqua.
Non molti giorni dopo, durante uno dei numerosi e prolungati blackout che colpivano l’isola in quel periodo (così come in questo, a dir la verità), passarono da casa di mia zia i suoi cognati, che erano lì giusto per prendere qualcosa e poi scappare, perché quel giorno andavano un po’ di fretta. Mia zia però insistette tanto per farli rimanere e potergli almeno offrire un caffè, giusto il tempo di un caffè, che sarà mai, che i due furono costretti ad accettare e finalmente mia zia poté andare verso la cucina a preparare la macchinetta. La cucina di mia zia è già piuttosto buia di per sé, dato che si trova a un piano basso e l’unica fonte di luce è una porta-finestra piuttosto stretta, considerando il blackout in corso poi (apagón in spagnolo) bisognava andare soprattutto a memoria e a tastoni per poter trovare gli oggetti e gli ingredienti necessari per un caffè. Toccando un po’ di qua e un po’ di là, tía Ana Paula prese la moka, sufficiente per almeno tre tazzine, l’aprì, prese una bottiglietta d’acqua dalla dispensa (di solito faceva bollire l’acqua per eliminare eventuali batteri e la conservava in bottigliette), ne versò un po’ nella caffettiera, ci appoggiò sopra il filtro, ci versò dentro del caffè in polvere, chiuse la macchinetta, la appoggiò sul fornello e accese il gas. Nell’attesa che il caffè salisse, la zia si andò a sedere in salotto, che si trova davanti alla cucina, insieme ai cognati per scambiare quattro chiacchiere. Di quattro in quattro quelle chiacchiere stavano diventando otto, sedici, senza che nessuno potesse ancora avere il piacere di sostenere una calda tazzina di caffè fra le mani: l’attesa stava diventando più lunga dell’usuale e considerando che i due ospiti intendevano fare solo una visita veloce, si iniziava a percepire un leggero imbarazzo. Mia zia a quel punto diede un’occhiata per controllare la macchinetta, che effettivamente poggiava sopra la fiammella del gas senza dare alcun segnale di attività. Decisero di darle altro tempo e aspettare pazientemente che salisse, ma quell’attesa, oltre che lunga, iniziava a risultare sospetta e cominciarono a sorgere dei dubbi in tutti i presenti, fino al momento in cui la caffettiera non iniziò finalmente a colare qualcosa, sì, ma un qualcosa che emanava un odore orrendo, che appestò in un istante tutta quanta la cucina.
Davanti al disgusto e alla sorpresa di tutti, inclusi i suoi ospiti, a quel punto chiaramente rimasti senza caffè e senza più tempo per aspettare, non fu in realtà così immediato per mia zia rendersi conto di quello che era successo, ovvero che nel preparare la bevanda al posto dell’acqua era stato versato parte del preziosissimo olio appena ricevuto. L’olio per arrivare ad ebollizione e poter oltrepassare il filtro della macchinetta aveva ovviamente bisogno di più tempo rispetto all’acqua e mischiato bollente insieme alla polvere di caffè non aveva mai creato niente che qualcuno al mondo ritenesse bevibile. Nel buio della sua cucina e di una Cuba senza luce, tía Ana Paula liberò infine i suoi cognati da quell’attesa di un ristoro tanto lunga da avvicinarsi a un sequestro di persona e si rese conto solo allora che in un’unica volta non solo aveva sprecato una buona parte di quell’olio quasi santo, ma aveva anche rischiato di bruciare la caffettiera e di trovarsi con un problema in più da risolvere, su un’isola dove non c’era modo di procurarsene una nuova. Sconsolata e piangendo sull’olio versato, buttò via quell’intruglio pestilenziale che era venuto fuori dalla macchinetta e dedicò i giorni successivi a fare colate di acqua e aceto nella speranza di pulirla e poterla un giorno riutilizzare, senza che nessuno fosse costretto a bere caffè dal retrogusto di frittura.
In spagnolo questa frase si direbbe “que había conseguido”. In italiano di solito usiamo i verbi “comprare, prendere, trovare”, ma il verbo conseguir, per quanto non credo che si utilizzi solo nella variante dello spagnolo parlato a Cuba, significa più che altro “ottenere, riuscire a procurarsi” e indica una sfumatura di conquista, di lotta per ottenere qualcosa che ho sempre trovato molto adeguata al contesto cubano.



Me acuerdo bien de esta historia tragicómica 😍. Fabi disfruto mucho con tus historias, tienes dotes de escritora. Besitossss ❤️
Esta historia no la conocía, paso a paso podrás escribir un libro, redactas muy bien, la lectura te atrapa. Un beso y éxitos mi niña bella